Ciro è un giovane pugile di Napoli, dell’antico quartiere Ventaglieri nel centro storico della città. La sua storia è quella di un mite che fa uno sport di sfida cruenta e che aggredisce le difficoltà della sua vita, nella parte di mondo nella quale vive, con tenerezza e silenziosa tenacia, da campione leale. “I campioni non si fanno nelle palestre. Si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”. Questo concetto di Muhammad Alì racchiude gran parte del senso che sta dietro alla vita ed alle scelte di Ciro, il protagonista della nostra storia. Ciro insegue un sogno, ha un desiderio, ed ha anche una visione. Vivere una vita normale. Il pugilato è il viatico per inseguire il sogno, lo scrigno della volontà; la palestra il luogo di diverse visioni della realtà.
Albert Camus vedeva la boxe come uno sport “assolutamente manicheo”. Non lo considerava un gioco, come il calcio o il tennis, ma “un rito che semplifica tutto. Il bene e il male, il vincitore e il perdente”. La dicotomia di cui parlava Camus si realizza in pieno nella storia di Ciro, tenerezza e rabbia, vittoria e sconfitta. I silenzi, il respiro, i corpi, i ring, le urla dei tifosi-bambini tutti per Ciro, la sua tenerezza contrastante con la rudezza del mondo della boxe, la sua faccia, i dialoghi monosillabici con la madre e con Annarita, la sua fidanzata.. I due maestri, Geppino Silvestri, uno dei più grandi maestri italiani e suo figlio Lino, che si sono presi cura di lui fin da tredicenne. Diventa un vero atto di resistenza, quando si è lasciati così soli, con responsabilità premature e con uno Stato che non ti conosce e non ti riconosce. Ma Ciro vuole farcela, si avvilisce, si chiude, poi trova la forza e riparte. Più che un documentario sulla boxe, un’opera sulla crescita.